Se c’è una parola che sciocca e spaventa le persone nella società di oggi, non è una bestemmia o parolacce da pornografia, ma semplicemente la parola “morte”. Il solo sentirla o leggerla fa rabbrividire la maggior parte delle persone e nessuno sembra volercisi rapportare. Per gli operatori Shiatsu, come per i terapisti di tutto il mondo, questa parola è una realtà che non è affatto un tabù, anzi.
La situazione che stiamo vivendo conseguente alla la crisi di Covid-19 è eccezionale solo per la portata delle decisioni prese dai governi di fermare le attività e confinare le popolazioni: non era mai successo prima nella storia dell’umanità. Eppure il mondo, e l’Europa in particolare, avevano già attraversato molte crisi in passato. Senza tornare alla peste nera, le epidemie del XX secolo (dall’influenza spagnola del 1918 al Covid-19, all’AIDS, alla SARS, all’influenza aviaria, all’H1N1, all’Ebola e ad altre ancora) non sono certo una novità. Eppure sono morte tantissime persone. Gli attacchi epidemici non sono un qualcosa di raro – basta aprire un libro sull’argomento – ma mai prima d’ora i Paesi del mondo sono stati così vicini al panico. Possiamo gridare al complotto se vogliamo, ma più semplicemente, è soprattutto il nostro rapporto con la morte ad essere in crisi. Come ha osservato qualche tempo fa il filosofo André Comte-Sponville in una rubrica su France Inter, “Sono rimasto molto colpito da questa sorta di panico collettivo che ha monopolizzato i media in primis, ma anche tutti noi, come se stessimo improvvisamente scoprendo di essere mortali”. Non ha tutti i torti.
Nascondimi la morte che io non saprei comprendere
La morte non è una novità e, come dice lo stesso filosofo, “Non è certo una novità. Eravamo mortali prima del coronavirus, saremo mortali anche dopo”. Anzi, è la morte stessa che ha fondato le nostre civiltà, visto che si parla di civilizzazione evidenziando i primi riti mortuari dei nostri antenati preistorici. Tutti gli esseri viventi sono destinati a morire dal momento in cui vengono creati e vivono nel mondo. Questo vale per piante, insetti, batteri e animali, noi stessi compresi. Finché vivevamo a contatto con la natura, nella nostra bella e verde natura, la morte faceva parte del paesaggio e della vita quotidiana. La morte di un animale non era certo sconosciuta e certo non lo è oggi. Quando venivano uccisi mucche e maiali era un giorno di festa, perché sapevamo che queste morti ci garantivano una riserva di cibo e quindi ci consentivano di rimanere in vita.
Ma man mano che le comunità si sono allontanate dalla natura, hanno perso il contatto con la propria natura, che è intrinsecamente mortale. Nelle città, la morte è cosa “insolita” da vedersi perché il nostro ambiente è così sicuro, igienizzato fino ad essere “disumanizzato”. Quando per molti anni ho vissuto a Parigi, mi colpiva il fatto che una linea del metro rimanesse interrotta quasi tutti i giorni “a causa di un incidente che coinvolgeva un passeggero”. In realtà, si trattava di qualcuno che tristemente si era gettato sui binari o sotto le ruote della metropolitana per suicidarsi.
Questa informazione mi è stata confermata dai miei conoscenti che lavorano alla RATP, che mi hanno fornito i messaggi che venivano emessi ai binari. Il linguaggio doveva essere neutro e non traumatizzante, in modo che nessuno pensasse neanche per un attimo alla morte e ancor meno alla morte come scelta individuale (il suicidio), il crimine peggiore di tutti i crimini. Il linguaggio è sempre stato quindi modificato e notevolmente addolcito, entrando nell’era del politicamente corretto e, in questo caso, dello psicologicamente non traumatico. Così una persona è “scomparsa”, perché “ci ha lasciato”, mentre in realtà è semplicemente morta.
Un altro elemento è la spettacolarizzazione della morte, per cui in ogni film o serie televisiva si mostrano spesso elevate quantità di morti. L’esibire armi è diventato sempre più diffuso e, come sono soliti dire i registi, “quando un’arma appare sullo schermo, significa che verrà usata e che qualcuno morirà”. Tutti i film polizieschi, i film d’azione, i film di fantascienza, i film storici, i film di eroi, i film di supereroi e, naturalmente, i film di guerra, mostrano omicidi in continuazione. Ma è solo un gioco, non è più un qualcosa di reale, sono solo immagini create per distrarre. La morte diventa un gioco che non impegna mai la coscienza dell’eroe, che sembra non avere alcun rimorso, alcuna remora nei confronti delle persone che lascia sul campo. Ed è logico, visto che nulla di tutto ciò è reale.
L’ultimo aspetto è la virtualizzazione del nostro rapporto con il mondo. Gli schermi ci hanno portato fuori dal mondo come filtri che ci estraneano dalla realtà. I bambini passano sempre più tempo al computer o al cellulare sui social, per seguire le lezioni a scuola, ma anche per giocare ai videogiochi, dove passano grande quantità di tempo a uccidere virtualmente. Ancora una volta, la morte è banalizzata, ma soprattutto virtualizzata e priva di valore e di contesto reale. Quando muoio come giocatore, posso sempre riavviare il gioco e sono di nuovo vivo, virtualmente, come posso morire nuovamente. Uno o due anni fa, è stato condiviso sui social network un fatto che avvenne. Si trattava di persone che mentre trascorrevano le vacanze in campagna si lamentavano del rumore dei trattori e degli animali, oltre che degli odori che provenivano dalle stalle. In risposta a ciò all’ingresso in alcuni paesi si affermava che qui c’era il rumore delle persone che lavoravano e degli animali che, tra l’altro, davano da mangiare a quelle stesse persone che la domenica si indignavano per il rumore o gli odori . Immaginate se questi coraggiosi turisti avessero visto anche un macello o uno stabilimento in cui si producono salsicce… Eppure è la stessa carne che le persone si gustano nei ristoranti. Non vi dispiace mangiare carne, ma non volete uccidere l’animale, né tantomeno assistere alla morte di un animale, tanto meno di un essere umano.
La morte umana
Gli esseri umani sono sempre stati stupìti, scioccati o affascinati dalla morte, ma solo recentemente ne sono stati spaventati. La nostra storia è fatta di morti per cause naturali, ma anche di malattie o morti violente: basta aprire un qualsiasi libro di storia. Nel classico Fortune de France di Robert Merle, si può leggere che nel XVI secolo le persone venivano uccise semplicemente perché rubavano le verdure da un orto o perché credevano in Cristo e in Dio ma non nella Vergine Maria. La morte era un qualcosa di normale. Naturalmente nessuno vuole tornare a quell’epoca, ma è ora di ricordare che la morte era semplice come la vita stessa.
La questione della morte ha sempre interessato – nel corso della storia e in ogni Paese – una particolare categoria della popolazione: i filosofi. Laozi, il fondatore del Taoismo, diceva che “L’uomo saggio si prepara alla sua morte”. Più vicino a noi, Jean de la Fontaine diceva: “La morte non sorprende l’uomo saggio. È sempre pronto ad andarsene”. Non conosco una frase più sensata e profonda. Certo, ci si può preparare alla morte andando dal notaio e mettendo in ordine i propri affari terreni, ma “prepararsi” qui significa “pensare e considerare” la propria morte. Ma oggi, chi lo fa davvero?
Quando studiavo meditazione, i miei insegnanti si presentavano spesso con questa frase all’inizio della sessione: “Oggi ho una buona notizia da darvi. Stiamo tutti per morire”. Mi ci è voluto un po’ per apprezzare questa forma di umorismo meditativo, ma incoraggiare le persone a pensare alla propria fine non potrebbe essere più salutare. Innanzitutto, questa meditazione/riflessione ci tranquillizza rispetto alla morte e ci permette di immaginarci solo in un preciso intervallo di tempo. La nostra vita ha un inizio e una fine. Questo è rassicurante, perché la vita, con tutti i suoi problemi, le tensioni, le difficoltà grandi e piccole, le prove del corpo e dello spirito, avrà sempre una fine. Un giorno tutto finirà e potremo tirare un sospiro di sollievo.
In secondo luogo, non c’è nulla di triste nel sapere che siamo mortali e nell’esserne quotidianamente consapevoli. Al contrario, ci delizia e ci incoraggia a vedere ogni giorno, anzi ogni ora, come un dono del cielo, un dono incredibile che può finire in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo: un incidente d’auto, un proiettile, un arresto cardiaco, una malattia, una caduta da una scala o, ancora più stupidamente, un asciugacapelli nella vasca da bagno. Di conseguenza, mangiare è un piacere e una benedizione, e proviamo piacere nel cucinare, nel vedere, nell’annusare e nell’assaggiare, senza dimenticare di condividere questo momento con una buona compagnia.
L’amicizia e l’amore entrano in gioco, perché potrebbero finire, come qualche volta accade. I problemi e i nemici non sono altro che disturbi secondari, perché loro se ne andranno, così come noi. Perché infierire e ingaggiare qualsiasi tipo di guerra (emotiva, commerciale, relazionale o addirittura armata) quando siamo solo di passaggio? La vita è troppo breve per essere sprecata. Perché dare importanza anche alle preoccupazioni, alle emozioni negative e alle maldicenze, visto che tutto questo finirà a breve o medio termine? Non dimentichiamo che viviamo al massimo 70-80 anni in media, un tempo molto breve. La vita è tanto più breve – e deliziosa – perché ne prendiamo coscienza solo dopo l’infanzia e l’adolescenza, che riducono la nostra vita consapevole di almeno 20 anni.
I meditatori considerano che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo e quando si svegliano spesso pensano di riflesso “grazie di essere ancora vivi per vivere questo giorno”. Questo semplice pensiero – o preghiera – cambia completamente il modo di affrontare e vivere la giornata, che è resa ancora più breve dal fatto che dormiamo per gran parte di essa. Questo semplice ringraziamento rende la giornata più luminosa e solleva i veli della preoccupazione o della tristezza. Sono vivo e ringrazio, perché potrebbe finire presto, in qualsiasi momento, anche durante questa giornata. Questo è un buon pensiero per prepararsi alla morte. Questa è saggezza. Vivere nella consapevolezza della propria fine. Al contrario, eliminare questo pensiero dalla nostra vita quotidiana ci porta in un vicolo cieco rispetto alla realtà del nostro mondo e alimenta la paura di morire. Non è questo il modo per concludere i nostri giorni in pace e tranquillità. Inoltre, la paura ci immobilizza nelle nostre scelte, mentre l’assunzione di rischi è insita nell’atto stesso di vivere. In altre parole, chiudiamo gli occhi su noi stessi e combattiamo contro dei mulini a vento.
Le persone sagge si preparano alla morte nella loro mente e sanno che è solo un passaggio, come abbiamo già sperimentato in precedenza (concepimento, nascita).
Cambiamo stato, tutto qui. Pensate a cosa rappresenta la nascita. Viviamo come un pesce in un ambiente acquatico, siamo nutriti e respiriamo attraverso l’ombelico a una temperatura costante di 37° e vediamo poco o nulla, anzi tutto è rosso, il mondo è rosso. Poi arriva il parto e ci viene detto che ora avremo freddo, che ci saranno molti colori e rumori vivaci, che dovremo respirare dal naso e mangiare dalla bocca. È uno shock totale, ed è quindi comprensibile perché i neonati piangano alla nascita, perché la transizione comporta un cambiamento di stato netto e completamente nuovo. Ma alla fine ci abituiamo e la vita continua, dimenticando che abbiamo già sperimentato almeno una morte, cioè un cambiamento di stato.
La morte è particolarmente dolorosa per chi resta. La sofferenza di vedere una persona cara che ci lascia è terribile, non quantificabile e indicibile. Ma per la persona che se ne va? È così terribile? E poi, abbiamo paura della nostra stessa morte? Molto spesso si ha paura della morte degli altri, soprattutto dei propri cari, ma non della propria. In effetti, la paura della morte è una malattia psicologica nota come “tanatofobia”. No, la maggior parte degli uomini e delle donne non ha paura della morte, purché sia indolore. Ma perché sia serena, dobbiamo essere preparati a questa eventualità ed evitare di seguire i messaggi distorti della cultura dei media.
La morte e il terapeuta
Mentre leggete queste righe, se siete arrivati fin qui, vi starete ora chiedendo quando parleremo di Shiatsu. Ebbene, eccoci qui. Quando ero un giovane sulla Via dello Shiatsu, ricordo una discussione con Bernard Bouheret, che mi disse: “Il passaggio essenziale per un grande terapeuta è la morte. Quando si ha a che fare con la morte di un ricevente, molte cose cambiano”. Qualche tempo dopo arrivò un giovane con la malattia di Charcot. Era all’inizio del decorso. Padre divorziato che si occupava di due figli, sportivo, elettricista di professione e di soli 32 anni, aveva ricevuto la prognosi 15 giorni prima. Spaventato da questa terribile notizia, volle tentare di tutto per fermare o rallentare la malattia. In soli due mesi, questa malattia degenerativa lo privò delle funzioni motorie, dagli arti inferiori ai superiori, poi ebbe un incidente mentre cercava di salire in macchina e infine morì quando la malattia raggiunse i polmoni, che smisero di funzionare a causa di una paralisi. La rapidità della malattia è stata uno shock. Non c’era letteralmente nulla che potessi fare se non quello che mi avevano raccomandato i miei insegnanti: accompagnarlo alla sua morte, cosa che ho fatto per le mie ultime tre sessioni. Poi il pianto. Poi il funerale. Poi il metabolizzare. Era la prima volta che perdevo un ricevente, il quale non aveva certo speranze contro questa terribile malattia.
Un simile evento è accaduto certamente a tanti operatori Shiatsu che lavorano da anni, e accadrà a tutti coloro che si dedicano allo Shiatsu. Ne ho parlato con molti colleghi e amici dello Shiatsu e tutti si sono commossi. Ma sono anche maturati e hanno imparato molto da storie simili. Grazie alla loro sensibilità, ho potuto raccogliere una serie di testimonianze che potete leggere nell’articolo che segue (articolo in francese), e vorrei ringraziarli per aver voluto condividere la loro esperienza.
La morte di un ricevente è un’esperienza profonda. Ma è anche un’esperienza che arricchisce e matura l’operatore. Ci sono innumerevoli lezioni da imparare. Eccone alcune:
Prima lezione: la morte (Yin) e l’altra faccia della vita (Yang). Yin e Yang sono la stessa cosa, come le due facce di una moneta. Uno non può esistere senza l’altro. Yin e Yang si inseguono e si rinnovano continuamente, si scambiano di posto, mutano l’uno nell’altro, senza fine né inizio. “Il germoglio più timido è la prova che non esiste una vera morte”[i], dice William Blake. Allora perché dovremmo avere paura di questa legge universale?
Seconda lezione: la vita può finire in qualsiasi momento, quindi è necessario celebrare la vita. Fate tutto il possibile per sostenerla e alimentarla in coloro che si rivolgono a voi. Riportate la gioia di vivere nei loro corpi e nelle loro menti e parlate loro della preziosità della vita. Insegnate anche a loro come nutrire la vita in modo che sia piena, radiosa e felice. Il poeta Jacques Prévert ha detto: “La vita è una ciliegia. La morte è il nocciolo. L’amore è un ciliegio”[ii].
Terza lezione: cerchiamo il senso della vita da molto tempo. Lo shiatsu ce ne ha chiaramente dato uno: aiutare gli altri, amare gli altri, sostenerli e insegnare loro a camminare da soli. È un lavoro (non una professione) che riempie di gioia e gratitudine il terapeuta che intraprende questo percorso. Dice “sei nel posto giusto”. Benediciamo non solo il giorno, la vita, ma anche il lavoro che abbiamo scelto di fare, la coerenza delle nostre azioni e del nostro cuore. Lo stesso vale per tutti i terapeuti, che comprendono che l’unico vero compenso non è il denaro ricevuto alla fine della seduta, ma il sorriso pieno di gioia e di vita sul volto del paziente. Pensare diversamente significa assicurarsi un percorso di frustrazione e una mente svilita.
Naturalmente, ogni persona trarrà i propri insegnamenti, a seconda del proprio percorso. Ma in tutti i casi, l’incontro con la morte nel contesto dello Shiatsu è un momento iniziatico che porta alla riflessione e alla maturità. C’è chiaramente un prima e un dopo. E in questo dopo non c’è più paura per sé o per l’altro, ma la gioia di andare avanti insieme, anche verso questo cambiamento di stato, questo passaggio, verso un’altra realtà che ci rimane sconosciuta.
Come possiamo prepararci alla morte?
La morte, se vista sotto una luce negativa, è sempre traumatica. È indispensabile liberarsi da questo trauma, che inevitabilmente porta alla paura più primordiale. Come diceva Cioran: “La paura è una morte in ogni momento” [iii]. Ecco perché suggerisco la psicoterapia a chi si trova in questa situazione. Aiuta molto. Ma ci sono molti altri modi per prepararsi alla morte, per motivi personali o professionali, o per entrambi.
Studiare la filosofia è un buon modo per integrare l’argomento. Questo argomento è stato trattato molte volte, dagli antichi greci, dagli indiani, dagli asiatici e dai credenti di tutte le religioni: tutti ci offrono spunti di riflessione. Tra i grandi yogi indiani, ad esempio, la morte non avviene per caso. Si sceglie e si muore consapevolmente, fermando volontariamente il cuore nello stato di mahasa samadhi[iv].
La meditazione è la via maestra per entrare in contatto con tutte le dimensioni del Sé, dello Spirito e quindi della vita/morte. Nello Zen, in particolare, ci sono molti aforismi che introducono riflessionii su questo tema. Nel buddismo tibetano, teschi e ossa umane fanno parte degli oggetti di culto. Nel Tantrismo del Kashmir, gli studenti devono affrontare un rituale in cui sperimentano la propria morte[v]. In tutte le religioni animiste, gli adolescenti devono rinunciare a se stessi per poter rinascere come adulti. Nello sciamanesimo amazzonico, bisogna “mettersi a dieta” (fare una dieta fisica e spirituale) in mezzo alla foresta, circondati da animali e insetti, per morire con le proprie paure e rinascere senza di esse. La morte, in tutte le sue forme, è un passaggio iniziatico che si ritrova in tutte le forme di credenza che prevedono la meditazione. Questo è uno dei motivi per cui le meditazioni fasulle, da quelle stile new-age e quelle che si trovano nel mondo virtuale non sono affatto meditazioni.
Le arti marziali (attenzione, non gli sport di combattimento) sono anche un buon modo per allontanare la paura della morte e prepararsi ad affrontarla. In pratica, prima di ingaggiare un combattimento che potrebbe potenzialmente causare dolore o lesioni gravi, arriva un momento in cui nessun pensiero o paura disturba il combattente. Inspirare e partire. La pratica e il combattimento con le armi sono particolarmente efficaci in questo senso.
Se non siete interessati a nessuna di queste tecniche, potete semplicemente osservare il mondo naturale che vi circonda. Guardate e scoprite che tutto ciò che muore è accanto alla vita, e aiuterà la vita a perpetuarsi. Un fiore schiacciato sotto i nostri piedi: potremmo essere noi. Un uccello rapace che tiene in mano un coniglio: quello potremmo essere noi. Un grillo catturato da un ragno: potremmo essere noi. Un albero che cade nella foresta: potremmo essere noi. In altre parole, se muoriamo, aiutiamo la magnificenza della vita a continuare.
Qualunque metodo scegliamo, occorre agire sempre con piena consapevolezza e, poiché siamo destinati a essere (o lo siamo già) un operatore Shiatsu, mettiamo da parte tutte le nostre paure e accetttiamo la morte come una semplice altra porta sul nostro cammino. E se siamo curiosi, ci chiederemo cosa c’è dietro la porta.
Buona fortuna e buona pratica.
Note
[i] In “Cent poèmes pour l’écologie”, edito da Cherche-Midi, 1991, poesia di William Blake.
[ii] In “Histoires”, Jacques Prévert, Folio, 1972.
[iii] In “Des larmes et des saints l’Herne”, 1990, Cioran
[iv] Si legga, tra gli altri, “Autobiografia di uno Yogi”, di Paramanhasa Yogananda, Self-Realization Fellowship, 2017.
[v] Leggere “Tantra” di Daniel Odier, Pocket éditions, 2002.
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Traduzione
Leggi poi: I racconti dei praticanti sullo Shiatsu e la morte (articolo in francese)